Era un temuto capobrigante, anche nella sua vita da vagabondo, ma rimaneva sempre elegante nel suo originale abbigliamento: indossava una giacca a doppio petto, una camicia bianca e un cappello cilindrico con un pomello che pendeva sulla destra. Era odiato dai proprietari terrieri, ma amato dai contadini e considerato un “riparatore di torti subiti dagli oppressi“.
Il Brigante Pizzichicchio
Il noto brigante Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, di “professione” contadino, nasce a S. Marzano di S. Giuseppe (provincia di Lecce, poi di Taranto) il 13 gennaio 1837. Soldato della Leva 1858 del Regio Esercito delle Due Sicilie, in seguito ai noti «avvenimenti unitari» combatte a difesa del Regno Borbonico. Lascia il servizio militare obbligatorio il 14 dicembre 1860 con l’ordine di «tenersi pronto per gli eventi». Nei primi mesi del 1861, all’età di 26 anni, costituisce, insieme a suo fratello Francesco e ad altri tre giovani contadini del luogo, il primo nucleo armato della Resistenza contro il nuovo Regime. Un episodio tra i tanti ci pare meritevole d’annotazione:
Il 17 novembre 1862 è il giorno del suo ingresso trionfale a Grottaglie al grido: viva Francesco II! Tutta la popolazione esulta e festeggia la sua banda ove certamente si dovevano trovare elementi locali. Qui il Mazzeo dà ordine di aprire le carceri e di mettere in libertà tutti i detenuti, fa svuotare tutti i negozi di generi alimentari ed il contenuto lo fa distribuire alla massa di contadini affamati e disoccupati.
Con l’avvenimento di Grottaglie, il nostro brigante, entra nella leggenda. Sua madre Maria Friolo ne va orgogliosa. Con tono sprezzante, dinanzi ai Carabinieri di Sava, dice: «se avessero ardito arrestare lei o alcuno dei suoi, sarebbero stati bruciati». Nella notte del 22 novembre 1862, Pizzichicchio e i suoi guerriglieri, sfuggendo alla Guardia Nazionale e ai R. Carabinieri a cavallo, trovano rifugio nelle campagne di Torre S. Susanna (Brindisi). Il giorno seguente sostano nella vicina Erchie la cui popolazione, percepita la presenza dell’eroe-ribelle, inneggia ai Borbone. A sera, passando per i boschi di Avetrana, i fuggitivi si affrettano per raggiungere le nostre marine. Durante la notte «[…] La comitiva riprese il suo cammino tra i tenimenti di Maruggio… ». Possiamo immaginare che il tutto abbia avuto luogo nell’area boschiva Arneo. E’ in queste ore che il Mazzeo decide di far visita al vecchio Don Nicola, Signore di Maruggio, per chiedergli il «pizzo».
I ricchi dovevano pagare una tangente per vivere sereni. Il dominio di Pizzichicchio era assoluto…, finché non arrivò il generale Stefanelli che aveva invece tutta l’intenzione di riportare la legalità. Il generale, accordatosi con il capitano dei carabinieri Francesco Allisio, perfettamente in linea con i suoi principi, decise di adottare una strategia pressante per stanare la banda di Pizzichicchio e porre fine al suo illegale dominio nelle campagne della zona. Allisio organizzò una colonna mobile di 29 carabinieri a piedi, 19 a cavallo, 31 cavalleggeri del reggimento Saluzzo e 14 guardie nazionali. Avvistarono così la banda che, braccata, perse in una sola notte undici briganti, fuggiti. Il bosco di Arneo, rifugio della banda, era sotto il controllo di Allisio.
In esecuzione alla sentenza emessa nel 1864 dal Tribunale Militare di Potenza, Cosimo Mazzeo è condannato alla pena di morte mediante fucilazione eseguita nello stesso anno.
Chi scrive è convinto che Pizzichicchio come tanti briganti di Puglia e Calabria appartengono a quel fenomeno che va sotto il nome di banditismo sociale. Alla fine del XX secolo l’interesse per questo avvincente fenomeno, non sarà solo di tipo culturale. Nascerà un sottile ma diffuso interesse, anche a fini turistici per il nobile brigantaggio: gesta, musiche, costumi e canti di briganti e brigantesse popoleranno le nostre città.
Contrariamente a quanto si è voluto pensare per lunghi anni, gli storici, anche nordici, «scopriranno» che il brigante era considerato dalle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia un eroe, un giustiziere, un liberatore. Non dobbiamo dimenticare che in più occasioni i ricercatori di storia patria delle comunità calabresi e pugliesi hanno documentato la stretta correlazione tra le origini del «brigantaggio politico postunitario» e la «questione meridionale». Il governo savoiardo, infatti, preoccupato di tutelare prevalentemente gli interessi della nuova borghesia meridionale, non affrontò i problemi che interessavano la vita sociale ed economica delle ex province del Regno di Napoli, provocando così un profondo e lacerante malcontento nei ceti meno abbienti delle popolazioni. I contadini hanno creduto che con la caduta del regime borbonico il neo governo piemontese avrebbe loro finalmente concesso le terre demaniali. Il governo di Casa Savoia rimase indifferente di fronte ai bisogni delle comunità contadine. Il governo (per non inimicarsi i nuovi feudatari), nel legittimare una situazione di fatto, provocò la giusta reazione delle popolazioni meridionali. Le delusioni del basso ceto sociale esplosero nel brigantaggio che diventò così un vasto movimento politico e sociale.
C’è chi ritiene ancora il brigantaggio postunitario un fenomeno delinquenziale e strumento del vecchio regime borbonico. In realtà esso fu un movimento di protesta con cui i contadini del Sud manifestarono il loro dissenso politico-sociale verso la grassa e grossa borghesia che tendeva a monopolizzare il potere a proprio esclusivo vantaggio. Il triste fenomeno, alimentato dall’indigenza e dalla mancanza di fiducia nella giustizia, ebbe come protagonisti numerosi lavoratori della terra.
Dinanzi a questo grande fenomeno sociale, al solo fine di onorare quei briganti che fecero la Resistenza contro l’occupazione del Nord, consentiteci, anche se fuori tema, di portare alla vostra attenzione il Brigante della memoria:
Ancor oggi, chiunque ascolti se stesso, se nella turbolenza del secolo riesce a far silenzio del cicaleccio insonne della mente, scopre nelle proprie viscere l’ombra ingombrante di un brigante, quello che volete voi, uno dei tanti briganti consegnati alla memoria, uno dei tanti ancora possibili.
Un brigante severo e scarno, vestito di nero e argento, col fucile irto di tacche, una per ogni nemico ucciso; un brigante romantico e irruento, rifugiatosi nella calda complicità della macchia per dimenticare la ferita di una storia d’amore mai sopita; un brigante disperato ed amaro, che vive d’odio e povertà, masticando lento i soprusi patiti, e la vendetta ventura; un brigante incendiario, fuggito dal piano a causa di una fede, che riposa nelle forre nere e verdi le speranze mai morte in una rivoluzione impossibile; un brigante ascetico e taciturno, che assolve lentamente le proprie vittime e prima di finirle le bacia, che recita ogni giorno il rosario e legge le Vite dei Santi nelle faville del fuoco della sera; un brigante che è ancora capace di scorgere nel profilo delle sue montagne al tramonto qualche angelo non più venerato, che gli parla piano.
Un brigante che parla le cento lingue dell’Italia profonda delle mille città, tedesco, romagnolo, albanese, sardo, veneto, abruzzese… possibilmente poco, possibilmente male. Al brigante è superfluo il bel linguaggio: sono più essenziali l’odio e la mira.
Non so dirvi come possa esser sopravvissuto dentro di noi questo folletto demodè e male in arnese, con l’archibugio e il falcione, sotto alla crosta scrofolosa di una civiltà dell’apparenza e dell’insostanza che ci ammorba dell’odor di deodorante, di televisione e di sugna; né credo alcuno sappia come realmente possa essere ancora superstite nelle odierne, scarnite foreste del cuore questo brigante invadente; certamente decenni, secoli di astinenza e privazioni, pur non avendolo ucciso, l’hanno reso cattivo, affilato, aguzzo, e ogni volta che si muove lascia dietro di sé una ferita.
Dal silenzio della memoria, a dispetto dei genocidi in serie, fisici, culturali e spirituali, anarchicamente egli sempre risorge. L’ombra di una luce morente che rifiuta caparbiamente di estinguersi, e sussulta, cantando, gridando, ringhiando.
E dai labirinti del cuore, dal midollo profondo di un’identità rimossa, ogni tanto il folletto birichino compie le sue sortite, e scompagina equilibri precari ma preziosi: il precario dell’anima è infatti oggi la condizione definitiva dell’essere. Basta quindi un detonatore, un piccone, una lama tagliente, una carica di profondità, e si riaprono cicatrici inaspettate, mai realmente rinchiuse. Il marcio immoto viene spazzato via dalla vita. Il sangue riprende a versarsi vivo, a scorrere ed a pulsare.
Qualcuno ha udito racconti, magari di quarta mano, sempre più povere leggende di paese; i più ricchi hanno avvertito l’eco di una memoria profonda, che ancora canta imperiosa dentro di sé; i più poveri, come coloro che hanno sempre vissuto nel deserto delle città, forse hanno riso di fronte al Frà Diavolo di Stanlio e Olio, per addormentarsi stranamente inquieti. Non mancheranno all’appello i colti, che rimembreranno oscure e devastanti estasi libresche, lacrime visionarie nella quiete di arcadiche ed arcaiche letture notturne, profumate di polvere da sparo.
Dalle Alpi alle Piramidi ci sarà chi ha cantato qualche canzone, magari in un’estate di vacanza, l’Andreas Hofer Lied condito con la birra dei raduni tirolesi, o il «Viva Tata Maccarone» risuonante delle tamorre degli eredi, chissà quanto inconsapevoli, delle plebi sanfediste…
Da immensi secoli il brigante vive dentro di noi, ringhia contro l’entropia del cuore, spera caparbio che un colpo di fucile, un fendente di falce e di spada possa ancora tagliare i nodi gordiani e laidi delle mezze misure, dei compromessi, delle moderazioni e delle vigliaccherie travestite di sussiego borghese e belle parole. Spera soprattutto che quel colpo di fucile, quel fendente possa essere, dopo tanta attesa, il proprio. A ciò egli si è preparato a lungo. Come Parsifal e don Chisciotte, antenati immemori della specie, il brigante eternamente vaga alla ricerca di sogni e di gloria. Il brigante è un atleta della speranza, così come il monaco è un combattente dell’umiltà. A questa figura sempiterna, minacciosa ed ironica sono dedicate queste poche, povere righe, piene di consapevole amore. Con la speranza di esserne ancora un poco degni.
*Brano tratto dal libro di Tonino Filomena Paese Nostro