Introduzione
Gaetano Pichierri, meticoloso e infaticabile studioso savese, ha avuto due principali meriti: il primo, di essere stato ricercatore originale (e apprezzatissimo) della storia del territorio, tanto da meritare plausi, approvazioni, considerazione, stima e grandi attenzioni da parte del mondo storico-archeologico locale (la Società di Storia Patria per la Puglia, per fare un esempio, ha curato l’introduzione, la prefazione e la diffusione di un suo libro postumo; altresì, il Pichierri è stato stretto collaboratore della Sovraintendenza e relatore in numerosi convegni di studi sulla Magna Grecia, nonché autore e curatore di una lunga serie di scoperte e pubblicazioni scientifiche originali). Il secondo merito del Pichierri, è stato quello di prestare attenzione e considerazione ad una serie di studi dimenticati nel tempo, come l’importante contributo del D’Elia alla storia del territorio di Sava, al quale il Pichierri rende, in un suo scritto (qui di seguito ampiamente citato e riportato), omaggio.
Gli studi più discussi (non perché non siano validi, ma perché si basano sulla raccolta di pochi materiali di tipo documentario, e molti di tipo etnografico) del Pichierri, sono quelli sulle origini più antiche del territorio e della Sava pre-quattrocentesca; tra essi, forse il più congetturale, ma non per questo meno interessante degli altri, quello che ricollega, attraverso una affascinante analisi, il territorio e la sua storia ad antiche origini cretesi e alla mitica Sallentia “urbs messapiorum”, ipotesi che il Pichierri riprende da alcuni stralci di una coinvolgente e importantissima opera di Achille D’Elia, pervenutaci in modo frammentario.
I Sallentini e Sallenzia
Secondo la maggior parte delle ricostruzioni la Iapigia comprendeva quasi tutta l’attuale Puglia; in un periodo successivo si sarebbe suddivisa in Daunia al nord, Peucezia al centro e Messapia al sud.
Successivamente, la Messapia fu suddivisa in due parti: i Messapi ad est e i Sallentini a sud ovest, nella costa ionica, denominata Sallenzia. Tale suddivisione si sarebbe generata a partire dalla fondazione di Taranto, nel 708 a.C.
Nelle accezioni sopra riportate, Sallenzia è un territorio, una “regione”, dai confini, tuttavia, non ben definiti.
Stefano Bizantino menziona invece l’esistenza di una città che avrebbe dato il nome alla più vasta area sallentina, una Sallentia “urbs messapiorum”. Poiché è il solo fra gli scrittori antichi a menzionarla, e poiché non fornisce indicazioni sull’ubicazione, molti hanno dubitato della sua esistenza. Un’altra interpretazione invece è che in un dato momento storico sia andata completamente distrutta e per questo è stato poi difficile ricordarla e menzionarne l’esistenza. Tra coloro che ne riconoscono l’esistenza, alcuni l’hanno identificata in Soleto, altri in Alezio, altri ancora in altre zone.
Il Profilo afferma:
« la Sallenzia compresa quella parte dell’odierna nostra provincia, che dal Capo dell’Ovo, fino a Vaste si distende lungo la marina, ristretta dentro terra da una linea tratta dalle vicinanze di Manduria per S. Pancrazio, Salice, Magliano, S. Pietro in Lama, Sternatia, Soleto, .Cutrofiano, Scorrano e Botrugno fino al mare presso Gagliano; e che la Messapia o Calabria dalle città di Vaste e Castro lungo l’Adriatico non si estese più oltre delle pertinenze di ‘Carovigno, donde per Ceglie, Montemesola, Grottaglie ed Oria si allargò per il rimanente della contrada dentro terra confinante con la Sallenzia ». [1]
Sallenzia e Fallenza
Gaetano Pichierri ipotizza l’esistenza di una Sallentia nei dintorni di Taranto, distrutta nel 473 a. C.; ma ancor prima che il Pichierri, è Achille D’Elia, nella sua opera “Sava e il suo feudo, Storia paesana”,[2] a lanciare tale ipotesi. Ovviamente questa è la parte della trattazione del D’Elia assolutamente priva di prove, testimonianze e riferimenti: la sua, perciò, resta una congettura basata sull’aspetto dei Castelli savesi,[3] sul fatto che sembra si trattasse di un sito abbastanza grande e importante, e sulle dichiarazioni del Viola che asserì di aver visto cose che vide solamente a Sparta e Messena.[4] E’ a conclusione della spiegazione di “Castelli” e dell’annesso sepolcreto, che il D’Elia afferma:
“Ora ditemi: non potrebbe per un momento venire in mente all’erudito di vecchie cronache che qui davvero – sul confine dei tre regni Messapico, Salentino e Calabro – fosse stata edificata la città di Sallenzia Urbis Messapiorum ?”
Il Pichierri riprende la suggestiva ipotesi del D’Elia confortandola di alcuni dati, seppur labili: le contrade savesi Fallenza, Silea, Minoto, con i loro toponimi di chiara origine antica (individuati come cretesi dal Pichierri), potrebbero essere delle tracce da considerare nella ricerca di Sallenzia. Leggiamo alcuni passi del Pichierri al proposito:
“Di Sallenzia sembra abbia parlato per primo Ecateo di Mileto e poi Stefano di Bisanzio, il quale ci ha fatto pervenire i pochi frammenti rimasti dell’opera di Ecateo. Non vi sarebbero altre notizie in merito, qualcun altro ha scritto per negare l’esistenza di questa città antica. Però sta di fatto che, contigua a quella di Pasano, vi è una contrada di nome Fallenza, nome questo che abbiamo inserito nel “confine dei toponimi”, poichè lo riteniamo di chiara derivazione classica. […] Potrebbe il tempo edace aver usurato e corrotto la radicale di tale nome? E in che modo? Se fosse facile riportarlo a Sallenza, il poblema linguistico si dovrebbe esaurire e, bene in questo posto, si verrebbe a risolvere quello della localizzazione della leggenda dell’arrivo dei cretesi, rendendo proponibile l’ipotesi di una Sallenzia da queste parti.” [5]
A questo punto del suo saggio, il Pichierri compie una interessante analisi linguistica rintracciando addirittura proprio nel “fi” iniziale di “Fallenza” il vocabolo originale, secondo lo studioso poi latinizzato e trasformato nella “S” di Sallenzia.
Il Pichierri ricollega anche la struttura del nome Sallenzia alla contrada savese Silea e al nome femminile di origine paganeggiante Sillenia in uso in Sava sino al 1600 insieme a numerosi altri altri nomi di derivazione pagana, usanza così diffusa che spinse un vescovo a emanare un decreto nel quale ordinava che si dovesse eliminare l’abuso di nomi pagani [6] . Egli scrive:
E’ pure da evidenziare che la struttura di questo nome la incontriamo in altre occasioni e sempre da queste parti. Difatti, nello spigolare nelle pagine del Coco (Cenni Storici di Sava, pag. 122-123), abbiamo trovato che nel 1633, il vescovo di Oria, mons. Parisi, venuto a Sava in santa visita, sconsigliò i fedeli di fare uso di nomi ancora paganeggianti, citandone diversi tra cui Sillenia, nome femminile. Si è citato anche il toponimo Silea proprio di una località alla periferia di Sava dalla parte di ponente, cioè dalla parte dove è svolta la nostra ricerca. E’ difficile stabilire se vi è un legame storico tra questi nomi e toponimi, anche se linguisticamente qualcosa in comune esiste, nel senso che si potrebbe procedere etimologicamente in tal senso:
molte parole greche col sigma iniziale, seguito da vocale, perdono questa consonante, mentre nel corrispettivo latino si ristrutturano con la s iniziale; ad esempio:
in greco uper = in latino super
in greco epta = in latino septem
in greco als = in latino sal(is),
mentre in greco si è persa la consonante iniziale, mutandosi in spirito aspro, in latino la ritroviamo ritornante. Potremmo anche dire che alcuni termini di lingua greca, comincianti per vocale con lo spirito aspro, hanno avuto in latino la tendenza fonetica a prendere o riprendere il sigma iniziale. Per semplificare dovremmo dire che il latino ha dato il sigma iniziale a certe parole che in greco non l’avevano. Per cui si potrebbe ravvisare l’ipotesi che siano stati i latini a dare la s a Sallenzia, anche perchè tale toponimo lo si rinviene per prima presso autori latini, come Strabone, Varrone, Plinio, Livio, Virgilio.
Se tale ipotesi si convalida, cioè che la s di Sallenzia, Salentini e derivati sia di estrazione romana, si può fare riferimento a Sesto Pompeo Festo, quando dice che “Salentinos (erano) a salo dictos” . E’ ovvio che lo scrittore latino sapesse il corrispettivo vocabolo greco.
La giusta radicale di Sallenzia allora dove la si cerca? L’andiamo a vedere piuttosto in Fallenza, lì dove il fi iniziale è il segno di una aspirazione e della mancanza di una consonante forte e la si vede soprattutto perchè, senza la s latina questo toponimo ha potuto sopravvivere solo nella cultura popolare e nel parlare volgare, che sovente, oltre ad avere più valore degli antichi codici, ha la capacità di trasmettere con maggiore fedeltà glosse dei tempi più antichi. Si consideri pure che la s e la f appartengono alla medesima categoria delle fricative e spiranti e vi sono delle leggi che tollerano l’avvicendarsi delle anzidette.
Anche nel toponimo Aliano la tentazione è forte per andare a vedere la radicale di Sallenzia con lo stesso ragionamento della s aggiunta dai latini. Se ne ricaverebbero due risultati: quello di Salentum, trasmessoci dagli storici e quello di Allianum (o Alianum) trasmessoci dall’ambiente della tradizione popolare. Inoltre bene si troverebbe ubicata, se deve vedersi nel passo di Livio, che citeremo più innanzi, quando parla della conquista di Manduria, un apud Salentum”. [7]
Minoto da Minosse
Più avanti, il Pichierri traccia un quadro esplicativo dei confini e degli altri luoghi circostanti la Fallenza ipotizzando che anche altri toponimi, come Minoto e la già citata Silea (altre contrade dell’agro di Sava) testimonierebbero la colonizzazione cretese del nostro territorio.
Se mai la città Sallenzia sia esistita, e secondo il Pichierri ciò è assai probabile, non è detto che debba essere rintracciata nella attuale provincia di Lecce:
“E’ stato Stefano Bizantino il primo a parlare di Sallentia. Il Coco dice che ne parla per darsi una ragione del nome dei Salentini. Per l’ Arditi, con spiegazione sommaria facendo leva sulla “autorità della storia”, è Soleto, in provincia di Lecce, ad avere più alti meriti per avanzare pretese etimologiche con Sallenzia. Ma quale Storia ha mai localizzato Sallenzia? Sarebbe piuttosto opportuno parlare di preistoria, dal momento che lo stesso Arditi cita un Salete, oriundo cretese, che nel 1590 a.C. sarebbe venuto in questi pressi, e altrettanto di un certo Saleatum, duce dei cretesi dopo la guerra di Troia. Strabone è chiaro quando riferisce che i Parteni guidati da Falanto, quando sbarcarono per fondare Taranto (708 a.C.) furono accolti da “barbari e cretesi”.[8]
Per la verità, un altro toponimo somigliante a quelli citati dal Pichierri è il monte Salete in agro di Grottaglie a poca distanza da Sava: di questo sito, seppur in termini mitologici, ne parla Ambrogio Merodio nella sua Istoria Tarentina [9] e ne parlano numerosi autori successivi. Monte Salete è sede di insediamenti dall’età del bronzo sino all’età romana imperiale [10] .
Vediamo ora dove va a rintracciare il Pichierri le tracce della colonizzazione cretese nella nostra zona.
“Satirion, l’attuale Porto Saturo aveva come eponima Satiria che sarebbe stata figlia di Minosse.
Erodoto dice che le città fondate dai cretesi nei dintorni di Taranto reagirono vigorosamente nel 473 a.C., nel tentativo di allargare il loro territorio. Può quindi darsi che Sallenzia, se ubicata nel territorio tarantino, sia stata distrutta proprio nel 473 a.C.
A questo punto si deve citare il nome di una contrada a un chilomentro da Sava, direzione nord-ovest, in cui è ipotizzabile un segno della persistenza della leggenda cretese, con il ricordo di Minosse. Il fatto è che il Berard giustamente definisce i Sallentini “maldistinti dagli iapigi” in compenso però “con notizie più chiare sulla loro origine cretese” (pag.414).
Questa maggiore chiarezza che concentra notizie, date e fatti tutti nel triangolo di Porto Saturo – Oria – Avetrana, ben dispone a vedere negli etnici toponomastici: Fallenza, Sillenia – Silea – Minoto i segni della leggenda della colonizzazione cretese di tali contrade, tra cui pure Sallenzia, come si potrebbe supporre leggendo Livio (XXII – c. 16): Quintus Fabius consul oppidum in Salentinis Manduriam vi coepit …, dove in Salentinis potrebbe essere il riferimento ad una località vicina a Manduria e cioè “apud Salentum” , ma che così non poteva esprimersi, perchè Salentum, l’ex Sallenzia, come supposto, era stata già distrutta nel 473 a. C. [11]
A proposito della contrada savese Minoto, il Pichierri afferma ancora:
“Minoto. Toponimo confinante con quello di Tima[12]. In Sicilia abbiamo Minoa, colonia di Selinunte. Alcuni affermano che doveva il suo nome a Minosse. I cretesi, protagonisti della leggenda di Minosse, avrebbero, secondo Erodoto, colonizzato la vicina Oria. Minoa è molto diffusa nel bacino del Mediterraneo”.[13]
Più avanti nel saggio, il Pichierri fornisce altri elementi :
“ Il toponomastico Minoto andrà riallacciato a tutta una serie di tradizioni sull’arrivo dei Cretesi nella regione, i quali, secondo Erodoto, si erano mossi dalla loro isola per vendicare la morte di Minosse, avvenuta in Sicilia per tradimento presso il re Cocalo, dove si era recato per rintracciare Dedalo. Nel viaggio di ritorno una tempesta li buttò sulle coste della Japigia e qui le loro navi si fracassarono sugli scogli. Non potendo ritornare in patria, ivi fondarono Oria (Hyria) ed altre città, le quali nel 473 a. C. guerreggiarono contro i Tarantini e la grande battaglia, se dobbiamo credere a Diodoro, fu combattuta “a poca distanza da Taranto” e fra Taranto e Oria. (cfr. J. Berard, La Magna Grecia, pag. 168 e note). Il Berard, senza parteggiare per alcuno, dice che gli antichi autori, tra cui Erodoto e Tucidide, non dubitavano della storicità di quei fatti che invece i critici moderni, dal principio del corrente secolo, hanno relegato tra le leggende, ci permettiamo di aggiungere, forse influenzati dalla severità storica che il Mommsen aveva instaurato con la sua scuola.
Adesso i tempi sono un po’ diversi e la critica moderna è più disposta a rivalutare elementi archeologici, storici e culturali di provenienza egea o micenea. Ora si dispone di una notevole diversa documentazione archeologica che permette di proiettare una nuova luce su avvenimenti che la critica recente aveva giudicato fantasticherie elleniche, cosicchè si è capovolta una situazione di termini che ha permesso di passare dalla cosiddetta colonizzazione mitica alla precolonizzazione storica”. [14]
Il Pichierri conclude così la sua discettazione:
“Il Carratelli (Atti del Convegno di Magna Grecia, vol. 1, pag 137) dice che: La scoperta di documenti micenei ha richiamato l’interesse degli storici su tradizioni antiche, che per aver assunto, almeno in parte, forma mitica venivano solitamente considerate trascurabili ai fini di una ricostruzione storica; appare quindi ingiustificata la sistematica svalutazione di tutte le tradizioni relative all’età “eroica”, come di invenzioni destinate a nobilitare di più l’antica storia delle colonie greche. Il Pallottino, che fa coro al Pugliese Carratelli, è più esplicito quando afferma che non era affatto priva di fondamento la possibilità che una figura come Diomede, persino una figura di Enea, potessero rispecchiare una realtà storica (Atti della Magna Grecia, vol. I, pag. 241) per cui, la venuta di Minosse in Sicilia e dei Cretesi nella zona di Taranto est, liberata dal velo della leggenda, può anche corrispondere alla cacciata dell’ ultimo Minosse da Creta ad opera degli Achei, infiltratisi pacificamente (Barbagallo, Storia della Magna Grecia, vol. I, pag. 79) e tale fatto avvenne, secondo Erodoto, tre generazioni prima della guerra di Troia, cioè all’incirca nel 1258 a.C. Secondo Eusebio, invece, questa sarebbe avvenuta nel 1204 a.C. E cioè sempre in tempo per gli Achei per attaccar briga con Troia.
Nel toponomastico Minoto si potrebbe anche vedere il segno di una realtà ancora ai margini della storia. D’accordo per il nome della Minoa sicula, che si è originato e perdurato, ma il toponomastico Minoto, ad una decina di chilometri da Oria (che si vuole fondata dai cretesi), sperduto e ignorato, come si è formato proprio qui, dove cretesi storici non ne sarebbero mai arrivati? La tradizione cretese diviene attendibile quando elementi archeologici incominciano a puntualizzare altre provenienze e cronologie, come a Oria, presso il Santuario di S. Cosimo, dove, tempo addietro fu casualmente scoperta una tomba in cui furono rinvenuti due vasi micenei (anfore a staffa del Mic. III B). Questi vennero acquistati dal Lenormant (v. I Micenei, pag. 17) e attualmente si trovano nel museo del Louvre. A questo punto la coesistenza tra reperti micenei, elementi linguistici e leggenda cretese, si fa complessa e si resta dubbiosi di fronte a tutti gli impulsi che possono essere giunti dall’ Egeo, nello stesso tempo in cui si afferma di far piazza pulita “di queste faville, che vorrebbero apparire storia, mentre non sono altro che poco ingegnose invenzioni” (T. Mommsen).
Finchè le invenzioni sono poco ingegnose, ebbene sì, si liberi da queste il terreno della storia, ma quando cominciano a coincidere elementi linguistici, archeologici e della tradizione, oltre l’autorità di Erodoto e Tucidide e di tanti altri, allora francamente ci si può trovare a disagio.
Con queste note, ci è piaciuto raccogliere elementi che potevano sfuggire ad un osservatore non abituato a stare a contatto quotidianamente con aspetti e caratteri della zona in cui vivo e poi, come si è detto in apertura, abbiamo voluto rendere omaggio al D’Elia, inquadrando fatti e tradizioni di questi posti anche se dalla critica relegati tra le leggende.
A conclusione di questa escursione: Fallenza, Sillenia, Silea, Minoto potrebbero rivelarsi un minuscolo segnale da considerare nella ricerca e la localizzazione dell’antica Sallenzia che si vuole distrutta nel 473 a.C.” [15]
Discettazioni toponomastiche: le ipotesi di Orazio Desantis
Nel suo saggio “Nuove congetture sul toponimo salentino “Sava” [16] Orazio Desantis affronta il problema dell’origine toponomastica del nome Sava avanzando l’ipotesi che il nome del Casalis Save quattrocentesco[17] possa essere stato originato da un nome antecedente assegnato alla medesima zona. Da un punto di vista storico ciò non è improbabile, considerando che Sava sorge sulle rovine di un antichissimo agglomerato del quale ci pervengono notizie abbastanza dettagliate da parte di diversi storici (Arditi, D’Elia, Coco e altri). L’antico sito giunge però a noi con il nome di Castelli, che permane anche come nome del più antico rione di Sava. Ciò non toglie che i “Castelli” non potessero indicare un tratto e una caratteristica specifici di una più ampia zona di altra – o più antica – denominazione poi ripresa con il susseguirsi del tempo e degli eventi.
Il Desantis tiene a precisare più volte nel suo saggio che la sua è soltanto una ipotesi glottologica di lavoro, che però, come si può notare scorrendo le righe del suo scritto, va a corroborare con l’aggiunta di un elemento etimologico le ipotesi del D’Elia e del Pichierri.
Nerl caso del Desantis, Sava trae origine da una radice terminologica che avrebbe generato diversi vocaboli tra cui Sallentum :
“Ciò che sto per proporvi è una mera ipotesi di lavoro. Alcuni, prima di me, hanno tentato un possibile etimo e tale ricerca può essere opportunamente seguita nell’opera del Coco, che discute le “pretese etimologiche del nome Sava”. A parte il fato che le conclusioni non sono possibili, perchè fa difetto a tutti i ricercatori una base docuentaria di prim’ordine, il Coco in particolare ha voluto confondere il toponimo in questione, a mio avviso abbastanza arcaico e sufficientemente diffuso in età protostorica, con le attestate origini medioevali del borgo omonimo, senza tener conto della eventualità dfi insediamenti continuativi o interrotti da cause a noi ignote e poi ripresi in successivi periodi storici, previa conservazione dell’antico toponimo. Del resto, anche il Coco intravede qua e là collegamenti e suggestioni di natura “salentina”, ma non ne trae le debite conseguenze. […]. Dunque, una dotta analisi del Devoto sulla radice italica SABH – mi suggerisce l’idea di un rapporto concomitante con il oponimo “SAVA”, con successivo esito della labiale media aspirata (- bh) in labiodentale aspirante sorda (SAF -) e quindi in labiodentale aspirante sonora (SAV -): Non dimentichiamo che l’area kinguistica japigo-messpica , a cui Sava apparterrebbe (con le importazioni “illiriche”, che illustrerò più avanti), è nello stesso titolo area osca con forti connotazioni sannitiche. Infatti, dalla radice congetturale “SAFNO” è derivato il latino Samnium e Samnites (greco Saunitai da un probabile “Sabonites”).
Il Devoto, presentando la suddetta radice, si dimostra scettico circa la sua origine sacrale; però, considerando come evento attendibile la permeazione illirica di tutta la fascia adriatica peninsulare, con non trascurabili infiltrazioni nell’entroterra, non sarebbe da scartare una connessione con la divinità traco-illirica Sabazios – Sauazios – Sabadius – Sawazios, affine al greco Dioniso e penetrata in seguito in area anatolica. Ma proprio in Mesopotamia, che ha influenzato a sua volta le culture egeo-anatoliche (giunte, tramite i Cretesi, nella Messapia salentina), noi riscontriamo una località chiamata Safà, mentre, di riflesso, annotiamo i termini messapici “SABA” e “SABAZIARO”, come pure l’espressione peucetica “OPAKAS SABALEIDAS”, che io tradurrei con “Opici Salentini” , riferendosi sempre al succitato radficale SABO-, che avrebbe generato Sabh-lentum, Sav-lentum, Sallentum (traslitterazione latina di una suffissazione italico-pregreca: cioè –li + intthos oppure -li + ynthos). Non meravigli questa estensione omonimica in aree geografiche così diverse: nell’ambito del mondo antico e protostorico i contatti tra popoli erano più frequenti di quel che noi possiamo immaginare; d’altro canto, noi moderni, abituati ai rigidi confini politici degli Stati attuali, non riusciamo a cogliere le realtà etno-geografiche della protostoria”. [18]
Il “Monte Malastro” e “la Fallenza”
A seguire si riporterà una analisi del Pichierri sul “monte di Malastro” altrimenti detto “Magalastro”, “Malagastro” “Malacastro”. Territorio dell’agro di Sava in gran parte inesplorato, questo sito ha testimoniato la presenza e il succedersi di numerosi insediamenti nel tempo, seppure attraverso frammentarie e inesaustive ricognizioni. Detto monte si ricongiunge ed è un tutt’uno con la contrada “Fallenza” e con la imponente macchia mediterranea che ancora, in gran parte, caratterizza questi luoghi.
“Sempre in queste amene contrade vi è un’altra località, per l’esattezza un’altura, detta ab immemorabili, “il Monte di Malastro”. Quel che ha attratto la nostra attenzione, è il confine di quest’area con la contrada Fallenza, cosa questa che potrebbe far supporre fosse quest’altura la località chiamata Fallenza, prima che si denominasse Malastro. La zona è ricca di tombe, per averlo sentito raccontare dai proprietari di fondi che le hanno scavate; e il corredo tombale sarebbe cospicuo, personalmente ho potuto vedere un vaso di Egnazia, mentre il terreno è disseminato di frammenti di ceramica e tegole. Su questa altura vi è un muro rovinato che anticamente era costituito di grosse pietre calcaree; questo, dalla parte di Levante che si congiunge con il Paretone o Muro Magno, di origine medievale; notati anche grossi blocchi tufacei che in questo posto ci hanno meravigliato, perchè tutta la zona è calcarea e rocciosa. Forse simili blocchi, malamente squadrati, sono stai portati appositamente fin qui, per un determinato uso, forse difensivo? L’altura da una parte si presenta maggiormente ripida e ciò le conferisce una capacità difensiva naturale; dal versante opposto, che dà alle terre da coltivare, la pendenza è minore e proprio qui per motivi difensivi poteva essere stato costruito un grosso muro di pietre e macigni che adesso si trova rovinato. Sembrerebbe che nell’antichità la zona abbia destato interesse e antichi abitatori l’hanno eletta a dimora. Ma così come adesso si trova, senza l’aiuto dell’archeologia, nelle conclusioni non si può andare oltre il convincimento che qui vi era, forse, una fattoria greca, una delle tante della chora, come la ceramica qui presente lascia pensare. Poichè si è notato che nel passato un centro abitato non sorgeva quasi mai in zona disabitata, ma veniva poggiato o sovrapposto ad altro di natura indigena preesistente, non si dovrebbe far fatica a pensare che qui, all’arrivo dei colonizzatori tarantini, il posto era occupato da altri abitanti. A questo punto si dovrebbe inserire la funzione del toponimo “Fallenza” con la relativa ipotesi del D’Elia, riferita in apertura a queste note di studio”. [19]
Achille D’Elia: “Sava e il suo feudo” – stralci dal manoscritto
Come già riportato, nella sua opera “Cenni storici di Sava” il Coco cita ampiamente lo scrittore Achille D’Elia, riportando nelle note a margine stralci di un suo manoscritto successivamente andato perduto, e intitolato “Sava e il suo feudo”. Il manoscritto era datato 1889, e, stando a quanto riportato dal Coco, si componeva di 3 fogli. A seguire, le parti riportate dal Coco:
“L’oblio che copre la storia di Sava, ameno e ridente borgo in Terra di Otranto, e la dimenticanza, tra questi cittadini, di quel poco che riguardar possa le vicende passate del lor paese natio mi hanno spesse volte tentato a scriverne qualcosa; ma spesso ancora, scoraggiato, ho dovuto smettere l’idea, e per l’assoluta mancanza in queste famiglie, di documenti scritti e per la grande difficoltà, in chi non possa spendere del suo per iscavi, viaggi, ricerche, di ritrovarne altrove degli autentici sul quale fondare il piccolo edifizio storico […]. [20]
La storia di Sava non è gran che negli annali civili di questa provincia; essa è circoscritta alla più esigua cronaca militare di una rocca. Non potrebbe però convenevolmente parlarne chi trascurasse rifarsi e discutere dei Castelli Castrum Munitum Messapici, o Salentini ora distrutti e ridotti in un bel giardino ad Oriente della novella Sava […] [21]
Ch’essi Castelli fossero costruzione vetustissima – non ben accertato se messapica o salentina per mancanza d’ iscrizioni – lo attestano le monete della vecchia Orra quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero; la irregolarità delle forme nei massi tufacei delle fondamenta ancora visibili – d’epoca evidentemente ciclopica e certi cocci di una tal terraglia pesante come ferro del color della ghisa è bastante che il chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto in una breve visita fattavi nell’ultimo agosto (1889) dichiarasse di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messena.
Questi Castelli erano in comunicazione sotterranea con un piccolo fortino sito in contrada Specchiodda e forse anco con quello di Uggiano Montefusco, e di Manduria: ciò che prova che essi rappresentar dovessero un intero sistema di fortificazioni di confini dei due regni Messapico e Tarantino. Se appartenessero agli uni, o agli altri mai potrei determinare: inclinerei per i salentini, avendo quel di Taranto dopo le guerre fatte contro i messapi elevato dappertutto sui confini dei propugnacoli di difesa, Castrum Munitum e quindi tratto gran profitto di questi Castelli, guasti dal tempo delle guerre.
Tale sarebbe la versione più modesta che potrebbe darsi alle dicerie corse sui nostri Castelli. Ci sarebbe dell’altro però. Dalla lunghezza della via sotterranea di forma poligonale, visibile anche oggi in casa T. e nel giardino M., ci sarebbe da arguire che essa servisse alle comunicazioni segrete fra i vari forti.
Dai sepolcri messapici – con la facciata del cadavere sempre rivolto ad Oriente – trovati in gran numero a mezzo chilometro dai vecchi Castelli e ad un metro di profondità in quel tratto di terreno che va dal convento di S. Francesco sino alla via provinciale, ci sarebbe da inferirne che qui fosse un sepolcreto da quelli dipendente. Ora ditemi: non potrebbe per un momento venire in mente all’erudito di vecchie cronache che qui davvero – sul confine dei tre regni Messapico, Salentino e Calabro – fosse stata edificata la città di Sallenzia Urbs Messapiorum ? […].
I Castelli “Castrum munitum messapici” e i camminamenti sotterranei
Dalle righe del D’Elia traspare la notizia che ai tempi della stesura del suo manoscritto (1889) i “Castelli” savesi sono già distrutti ma ne avanzano i massi tufacei delle fondamenta, e altri resti non meglio specificati, identificati nel “bel giardino a Oriente della novella Sava”; altre tracce consistono nelle monete e nei cocci che all’epoca del D’Elia continuano a rinvenirsi. Dieci anni prima del D’Elia, nel 1879, l’Arditi riferisce anch’egli dei Castelli savesi e dei loro resti:
nel predio Castelli, appo l’abitato, sogliono scavando rinvenirsi delle monete di tipo greco […] Qui d’appresso esisteva una volta il casale appellato Castelli, e ne fan fede il nome che ancora dura nella contrada, le due vecchie vie che esistono e che chiamano Vetere o Portoreale, e i ruderi e le monete accennate di sopra. [22]
Il Coco, oltre a riportare gli stralci del manoscritto del D’Elia, fornisce altri elementi in merito: innanzitutto ricostruisce l’ “occupazione” del sito Castelli (e quindi la fondazione di Sava) da parte degli abitanti esodati di Aliano, Pasano e Bagnolo, intorno al 1378:
“La maggior parte di questi profughi per sfuggire alla morte vennero a dimorare in un luogo più sicuro messo sul confine del feudo di Pasano o di Aliano dalla parte del Levante, nella contrada chiamata i Castelli, ove poteano in tempi di persecuzioni facilmente salvarsi nei diversi cunicoli sotterranei che vi erano e che tuttora in parte sussistono”[23]
Alla fine del 1400, secondo la ricostruzione del Coco, gli antichi Castelli, seppur in parte rovinati, sono visibili nella loro imponenza:
“Venuta la tregua, alcuni tornarono ad abitare Pasano. Gli altri si stabilirono e cominciarono a fabbricare le loro case accanto ai vecchi Castelli in parte rovinati e cadenti, che, neri e minacciosi posti sul confine del territorio oritano, sulla via Appia Traiana, detta anche Augusta Salentina, servivano di dimora e di difesa alle sentinelle che avevano cura di guardare la foresta oritana da aggressioni che poteano venire dal confinante agro tarantino. Da questo aggruppamento fortuito di case sorse Sava, detto prima Castelli dal latino Castitia”[24]
In un altro suo passaggio, il Coco fornisce altri particolari circa l’aspetto dei “Castelli”:
“Accanto agli avanzi dei massicci castelli, situati al confine del feudo oritano e della foresta tarantina sulla via Appia Traiana, sorsero le prime abitazioni di Sava. I profughi dei vicini paesi Aliano, Pasano e Bagnolo, all’ombra di queste fortezze con torri merlate, in parte cadenti, si raccolsero e nelle antiche vie Vetere e Portoreale, edificarono le prime casette, piccole e basse, con tetti coperti di paglia e di embrici, con impannate alle finestre e grosse porte di legno… “ [25]
Il Coco accetta l’ipotesi dei “Castelli” come fortificazione e avamposto messapico della vicina Manduria, né ha dubbi che vi fossero un agglomerato con sepolcreto annesso, e una serie di sotterranei nel cuore del paese, rispetto ai quali egli stesso raccoglie altri elementi. Quello che il Coco rigetta del D’Elia è l’accostamento con “Sallenzia”:
“E’ questa labile supposizione dell’autore priva di fondamento storico e sol posata sui ruderi trovati di alto i Castelli. Che i Salentini abitassero nell’omonima penisola fin dai tempi più remoti una città chiamata Sallenzia capitale di questo popolo lo attesta Stefano Bizantino. Che fosse poi in questi dintorni di Sava nessuno lo ha mai asserito […]. Che anzi il Niebuhr […] sostiene che una Sallenzia, come città, non è mai esistita nella Puglia e Stefano Bizantino, se ne parla, ne congettura l’esistenza per darsi ragione del nome dei Sallentini. Contro questa asserzione però sta il fatto di alcuni codici della Storia Naturale di Plinio che citano la città di Sallentum nella Terra d’ Otranto, mentre altri menzionano Soleto. Inoltre di Millennio, re di Salento, parla Giulio Capitolino […] e una Salentum esisteva senza dubbio che il Lucarelli opina fosse nella provincia di Bari […].
Quanto poi riferisce ‘autore circa la forma dei Castelli, la via sotterranea, i sepolcreti e le monete trovate, merita fede avendo io – le stesse cose – sentite narrare da altri testimoni oculari” [26]
Conclusioni
Al di là della questione “Sallenzia”, quello che è affascinante della documentazione fornitaci dal D’Elia, dall’ Arditi, dal Coco e dal Pichierri è la certezza dell’esistenza di una fitta rete di camminamenti sotterranei nei pressi dell’attuale centro abitato di Sava e di un antico centro abitato costituito da imponenti mura e torri merlate, con sepolcreto annesso. [27]
Non si conoscono le caratteristiche precise e la datazione dei camminamenti sotterranei, e non è chiaro se possano far risalire alla stessa epoca del supposto insediamento messapico o se siano successivi, o, ancora, se in epoca successiva a quella messapica non sia stata ampliata una preesistente rete di cunicoli. Più volte il Pichierri, nel corso dei suoi scritti, lancia appelli per un interessamento da parte delle istituzioni al sito e per la progettazione e il finanziamento di scavi e ricerche, ma le sue richieste restano inevase. Con la sua scomparsa, diminuisce anzi anche l’interessamento locale sulla questione dei “sotterranei” dei quali nessuno più parla. “Molto probabilmente abbiamo un patrimonio storico lasciatoci dagli antichi abitatori. Poi si vedrà se si tratta di Messapi, Normanni o Svevi”, egli scrive, con ciò auspicando innanzitutto un interessamento da parte del Comune in primis e l’avvio di una campagna di scavi. L’impresa non sarebbe impossibile: a Lecce è attivato da tempo un progetto che sta riportando pian piano alla luce i resti, appunto, della Lecce sotterranea. [28]
Del pari, e per gli stessi motivi, occorrerebbero ricerche e nuovi e più approfonditi studi anche nell’ambito di quel più vasto territorio che il Teofilato indica come messapico, e che ricomprende Manduria con le sue note mura, ma anche Sava con una “cinta megalitica barbaramente distrutta o seppellita”, la stessa Agliano che sempre il Teofilato definisce “cittadella messapica” situata sul confine tra Messapia e Magna Grecia[29] e perciò avamposto degli insediamenti di Sava e Manduria (Il Pichierri, l’ Annoscia ed altri individuano anche loro Agliano come insediamento di confine, e tempio di frontiera, ma lo inseriscono all’interno del confine magnogreco e non di quello messapico come ritiene invece il Teofilato).[30] Dunque, e sempre all’interno di questo antico percorso fatto di insediamenti solo superficialmente studiati e riportati nella letteratura storico-archeologica dei luoghi, andrebbero effettuati approfondimenti anche in merito alle presenze di resti di ceramiche e altri manufatti delle stesse epoche presenti in Pasano, Petrose[31], San Giovanni e altre contrade savesi collegate con Sava e Agliano.
Vorrei concludere questo articolo con una citazione letteraria: il romanzo Le avventure di Telemaco del francese Fénelon (François de Salignac de La Mothe-Fénelon).[32] Quest’opera esce nel 1699 in Francia ed è interpretata come una critica contro il governo di Luigi XIV, mascherata da racconto epico ambientato nell’antichità. A partire dal libro IX, l’ambientazione di questo lungo racconto definito pseudo-storico è il Salento. Telemaco, figlio di Ulisse, approda, in seguito a varie peripezie, e credendo di arrivare a Itaca, nel porto di Salento. Qui, trova a riceverlo il re Idomeneo, già re di Creta, che, stabilitosi in Italia, aveva fondato una nuova città: Salento, appunto, “Capitale del paese de’ Salentini”[33], occupando la zona costiera e spingendo i Manduriani, antichi abitatori di quelle coste, a vivere nell’entroterra. La descrizione del paesaggio, del porto, della cittadella, del promontorio vicino, di un tempio dedicato a Minerva, e dei vari episodi che coinvolgono i vicini tarantini e manduriani, pare una fotografia dei luoghi e della costa che si dipana lungo il tratto di Torre Ovo. Quello sembra essere il porto, con l’insediamento detto Civita Vecchia, il vicino tempio di Minerva situato sul promontorio di Monacizzo, attestati da numerose ricerche degli studiosi locali del passato.[34] Certo, si tratta di un romanzo: ma le coincidenze sia con le descrizioni storiche dei luoghi che con le ipotesi del Pichierri e del D’Elia sono suggestive e sorprendenti.
Se con le ipotesi di Gaetano Pichierri e Achille D’Elia, in mancanza di dati certi abbiamo quantomeno viaggiato piacevolmente sulle ali dell’immaginazione, il romanzo di Fénelon aggiunge sicuramente un tocco visionario e di grande suggestività alle congetture dei due studiosi locali che forse, direi anzi quasi certamente, non conoscevano il romanzo, altrimenti al Pichierri non sarebbe sfuggita l’occasione di citarlo, sia pure come curiosa, ma incredibilmente stretta assonanza alle sue teorie.
Gianfranco Mele
- Profilo, Antonio: ho trovato questa citazione da Leone, Marcellino, Terra d’Otranto dalle Origini alla Colonizzazione romana – l’ epoca messapica nella interpretazione della scienza tradizionalistica Milella, LE, 1969, pag. 54 ↑
- Si tratta di un manoscritto del 1889 andato perduto, ma del quale il Coco fornisce vari stralci nella sua opera “Cenni storici di Sava” ↑
- v. Mele, Gianfranco: Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo in “Academia.Edu” ↑
- v. Coco, Primaldo, Cenni Storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Lecce, 1915; ried. A cura di Marzo Editore, Manduria, 1984, pag. 59. Il Coco riprende qui alcuni passi del manoscritto di Achille D’Elia “Sava e il suo feudo, storia paesana”. ↑
- Pichierri, Gaetano: Il confine degli etnici toponomastici, in “Omaggio a Sava”, (raccolta postuma di articoli del Pichierri editi tra il 1975 e il 1989), a cura di V. Musardo Talò, Del Grifo Edizioni, cit., pp. 251-252 ↑
- Cfr. Coco, Primaldo Cenni Storici di Sava, op. cit. pp. 122-123. ↑
- Pichierri Gaetano, op. cit., , pp. 252-253 ↑
- Ibid., pag. 253 ↑
- Merodio, Ambrogio : Istoria tarentina, manoscritto, 1682, riedito da Mandese Ed. (a cura di C. Damiano Fonseca), Taranto, 1998, pag. 14, si legge: “Fecero detti Titani la loro prima abitazione otto miglia vicino alla città di Taranto, quale chiamarono Salete. Ho veduto le rovine di detta città antichissima in un castello disfatto sopra ad un monticello, e nel piano molti segni di edifici, come anco per li campi vicini molti sepolcri, dentro li quali si trovano molti vasetti curiosamente lavorati, con li quali li antichi Gentili si seppellivano, e molti acquedotti di piombo e monete antichissime d’argento e d’oro. Le quali cose fanno evidentemente conoscere di qual grandezza e magnificienza fu detta città…” ↑
- “Il colle di Monte Salete, situato nella valle del Visciolo, sistemato a terrazze digradanti verso SSE, fu sede di un insediamento a partire dal Bronzo Recente fino all’età romana imperiale. Il villaggio capannicolo si svolge sulle terrazze, senza soluzioni di continuità, attraverso il Bronzo Finale, l’età del Ferro e le prime fasi dell’Arcaismo. La necropoli si estende sulle balze e sulla piana circostante al colle sui lati ovest e sud, raggiungendo la massima espansione nel IV e nel III secolo a.C. Nell’area della necropoli meridionale sono state rinvenute tracce di epoca protovillanoviana (ciotole d’impasto con orlo rientrante, urne biconiche e ceramiche protogeometriche). Scarse le testimonianze del tardo ellenismo e dell’età imperiale, per lo più circoscritte alle ultime terrazze del colle.” – tratto da “Elenco beni archeologici città di Grottaglie – area tecnica – settore urbanististica” . In questo documento, nutrita bibliografia degli studi sul Monte Salete. ↑
- Pichierri Gaetano, Omaggio a Sava, pag. 253 ↑
- Il Pichierri identifica”Tima” come una zona a valenza archeologica, caratterizzata dalla persistenza del toponimo che deriverebbe dal nome della pianta del timo, e dalla presenza, nell’area della detta contrada, di pozzetti di forma biconica, e di diverse tombe fornite di corredo (in una di queste sarebbero stati ritrovati anche oggetti aurei). Cfr. Pichierri, Gaetano, Omaggio a Sava, pag. 244-245 ↑
- Pichierri, Gaetano, ibid., pag. 244 ↑
- Ibid. pag. 254 ↑
- Pichierri Gaetano, cit., pp. 254-255 ↑
- Desantis, Orazio, in: Lomartire, Giuseppe (a cura di), Sava nella Storia, Cressati, Taranto, 1975, pp. 94-97 ↑
- Si fa menzione di Sava per la prima volta, nei documenti scritti rintracciati dagli storici, in un assenso prestato dalla Regina Giovanna II nel 1417 al milite Ciccarello Montefuscolo, per comprare alcune terre annesse al Principato di Taranto tra cui il Casalis Save – cfr. Coco, Primaldo, Cenni storici di Sava ↑
- Desantis, Orazio, op. cit., pp. 94-96 ↑
- Pichierri, Gaetano, cit., pp. 255-56 ↑
- A questo punto la trascrizione del Coco si interrompe con un sunto-annotazione del Coco stesso: “Continua l’autore racogliendo quanto ne dicono il Giustiniani nel noto Dizionario e l’Arditi nella sua Corografia, il Valente e altri che non nomina”, scrive il Coco tagliando corto su questa parte dell’opera del D’Elìa. ↑
- Qui il Coco interrompe nuovamente la trascrizione scrivendo lapidariamente che il D’Elìa “finisce riferendo poche altre tradizioni locali”. ↑
- Arditi, Giacomo La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’ Otranto, 1879, pp. 548-549 ↑
- Coco Primaldo, op. cit., pag.63 ↑
- Ibid., pp. 63-64 ↑
- Ibid., pag. 119 ↑
- Ibid., nota a pag. 60 ↑
- Cfr. Mele,Gianfranco, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, Terre del Mesochorum, sito web, luglio 2015; Sava, Li Castieddi e i camminamenti sotterranei, La Voce di Maruggio, novembre 2018 ↑
- Si veda: Arthur, Paul, Sotto i nostri piedi un’altra città vive e racconta tanta storia, Arcidiocesi di Lecce, L’ora del Salento ↑
- Teofilato, Cesare Segnalazioni archeologiche pugliesi – Allianum in: Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – n. 38, 21 settembre 1935 ↑
- Pichierri, Gaetano, I confini orientali della Taranto greco-romana, in “Omaggio a Sava”, 1994, pag. 242 ↑
- Mele, Gianfranco Antichi insediamenti in contrada Petrose, in agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019 ↑
- De Salignac de La Mothe-Fénelon, François, Les aventures de Télémaque (1699); ed. italiana consultata: Le avventure di Telemaco figliuolo di Ulisse, Giordano, Napoli, 1828 ↑
- De Salignac, op. cit., pag. 254 ↑
- ”Questo porto oggi si dice il Porto del capo, e monte dell’Ovo, e le sue rovine Civita vecchia, e la città nuova era dirimpetto un miglio infra terra, dove oggi è il castello di Monacizzo, luogo di poca abitazione, sebbene anticamente era molto maggiore, come il circuito delle sue rovine dimostrano. Dove oggi è ridotta la terra, primieramente era, come dicono, il Tempio di Minerva, e dopo un monastero di monaci Greci dell’ordine di S. Basilio, donde dopo fu detto Monacizzo. In questo luogo si sogliono trovare sotterra vasi antichi di creta di opera meravigliosa.”(Girolamo Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’ Otranto, Napoli, 1855, p.352).Vedi anche: Gaetano Pichierri, Virgilio e la costa ionica ad est di Taranto, in: Omaggio a Sava, cit., pp. 155-157; Giacomo Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, stab. Scipione Ammirato, 1879-1885, p. 359; Giacomo Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, stab. Scipione Ammirato, 1879-1885, p. 359; Paride Tarentini, Monacizzo. Un antico centro magnogreco e medievale a sud-est di Taranto, CRSEC Puglia, 2006, pp. 37-38; 121-122 ↑