È la notte della nostalgia che si aggrappa alle viscere di quel tempo immemorabile ed empatico che stringe la memoria in un silenzio contemplante.
Quando la luna smette la sua melodia è il canto che prende il sopravvento lungo il viaggio dell’esistenza. “Il canto della nostalgia” di Tonino Filomena, per i tipi de “La voce di Maruggio” non è soltanto un raccontare tra gli scogli di quella atroce malinconia che spacca le pietre del pensiero, ma è il ritrovare una vita.
Ovvero la vita vera. Quella che è infinitamente immateriale tra il pensare e il pensiero di un tempo che sembra non esserci più ma che insiste molto più di prima. In in tempo di solitudine, di emergenza Covid, lo scrittore scrive dal sottosuolo ciò che Eugenio Borgna. chiamerebbero il silenzio della parola. Mai un tocco di leggerezza. Ma di tempo si.
Un indiscutibile intreccio che giunge dagli inferi. Ulisse che incontra la madre. E ritrova il padre nella sua attesa di campagna. Immobile metafora di una generazione in cui Dio sembra un assente ma è una irriverente presenza che snocciola i cocci degli infiniti.
Una famiglia che è tradizione nell’interno di un paese che vive d’anima e muore di prassi nel presente. Tonino Filomena ha scritto un libro importante. Necessario tra i demoni nicciani e il deserto dei monaci.
Io resto ancora sul davanzale. Lui è andato oltre e li ha incontrati. Il padre. La madre. Una comunità che è radicalmente. C’è un interrogarsi che è quello con Dio. Ma Dio è morto. Se è morto qualcuno lo ha ucciso. I diseredati ci sono sempre. Chi lo salverà? I nichilisti che hanno poggiato le loro radici nella memoria. Ma se sono poggiate nella memoria il tutto è diventato o diventa nostalgia.
Attenzione. Nostalgia. Non nostos. L’antico ritorno vichiano è una metafisica della dissolvenza. Tonino Filomena si rivela un grande scrittore.
Pierfranco Bruni