A 30 anni dalla più misteriosa strage italiana, proponiamo un’interessante ed ancora attualissima intervista fatta da Nazareno Dinoi nel 2000 al manduriano Leonardo Lecce, uno dei sei periti della commissione tecnica che indagò sulle cause del disastro: “Fin dall’inizio fummo pedinati”. “Tra le tante bugie, quella dei radar di Fiumicino tarati male”. “Di una cosa sono certo: fu un missile lanciato da un aereo”.
Fu una guerra, una battaglia aerea sul Tirreno a far precipitare nell’80 il Dc-9 Itavia con a bordo 81 persone. E’ quanto ha stabilito un anno fa il giudice istruttore Rosario Priore. Tra una settimana, a vent’anni dalla strage, dieci generali entreranno nell’aula bunker del carcere romano di Rebibbia per rispondere di attentato agli organi costituzionali e alto tradimento (accusa rivolta a quattro di loro) e di falsa testimonianza (agli altri sei).
Per ricordare quel tragico evento abbiamo incontrato il professore Leonardo Lecce, uno dei periti della prima commissione tecnica che per sei anni ha lavorato per cercare la verità su una delle pagine più oscure della storia repubblicana.
Roma, febbraio ’89. Sei uomini sono appena scesi da un aereo dell’aviazione militare italiana proveniente da Londra. Il giudice istruttore Vittorio Bucarelli, che li ha nominati, vuole sapere da loro che cosa ha fatto precipitare, alle ore 20,59 del 27 giugno 1980, il Dc-9 in volo da Bologna a Palermo. Prima di prendere posto all’interno delle grosse auto del ministero dell’Interno si avvicina un signore in divisa: ha i gradi di capitano e le insegne dell’aeronautica militare italiana. Nelle mani ha un plico che consegna a uno di loro: “Qui c’è la verità su Ustica”. I sei si guardano in faccia eccitati. Appena in auto, aprono la busta: trenta pagine stampate al computer in cui si sostiene che ad abbattere il Dc-9 è stato un Ufo.
I super esperti sorridono. Non era la prima volta che qualcuno tentava di mettere nelle loro mani le “sue” verità sulla vicenda. La loro verità, invece, era ben diversa: ad abbattere il Dc-9 è stato un missile non identificato. La conclusione della perizia, in un primo momento unanime, sarebbe stata poi rivista da due di loro.
La storia dell’Ufo non fu solo un aneddoto, ma faceva parte di una serie incredibile di tentativi di depistaggio che contornarono i sei anni in cui si svolsero i lavori della commissione Blasi. I sei periti, tutti ingegneri aeronautici laureati o in servizio all’Università di Napoli, erano Massimo Blasi e Marino Migliaccio, entrambi esperti di motoristica industriale, Ennio Imbimbo, specialista in esplosivi, Raffaele Cerra, conoscitore di sistemi radar e dirigente della Selenia (società produttrice di missili e radar), il medico legale Carlo Romano ed infine Leonardo Lecce, l’unico perito esperto in aeronautica.
In un primo momento furono tutti concordi nel sostenere la tesi del missile; due di loro, Blasi e Cerra, cambiarono idea: ad abbattere il Dc-9 era stata una bomba. Un ripensamento, questo, che di fatto invalidò il giudizio finale della commissione tanto da costringere il giudice istruttore a chiedere un supplemento di perizia. Il risultato, però, fu identico: i pareri degli esperti rimasero discordi. Tra coloro che non cambiarono opinione su ciò che aveva provocato il disastro aereo c’è il professor Lecce. Egli è tuttora convinto che quella notte, nel cielo di Ustica, “qualcosa dall’esterno colpì la parte superiore sinistra della carlinga dell’aereo, facendolo precipitare dopo un breve tentativo di ammaraggio durato dai quattro ai sei minuti”.
Docente di acustica e vibrazioni presso il Dipartimento di Progettazione Aeronautica dell’Università di Napoli, il professor Lecce è tra i massimi esperti italiani di sicurezza aerea. E’ la prima volta che si lascia intervistare. Negli anni in cui si è occupato di Ustica ai mass media ha rilasciato soltanto dichiarazioni tecniche.
In uno dei tanti afosi pomeriggi di fine estate, Lecce ci riceve nella sua residenza estiva di San Pietro in Bevagna, località balneare sul litorale ionico salentino. Ci fa accomodare in veranda. Dietro di noi echeggia il mare del golfo di Taranto. Non è per niente infastidito dal registratore. Anzi, il professore sembra abituato a parlare con la stampa. “Durante il periodo delle perizie sul Dc-9 – spiega -, parlavamo molto con gli organi d’informazione ai quali non nascondevano niente. Decidemmo di utilizzare questo sistema per difenderci da possibili incidenti”. Non erano tempi belli, quelli, ecco perché, spiega Lecce, avevamo accettato il consiglio di un giornalista: “Dite subito ciò che si è scoperto, vi renderà immuni da possibili tentativi di soppressione”.
Professor Lecce, in questi venti anni d’inchiesta si è parlato molto di depistaggi, tentativi di deviazione, reticenze e anche di morti sospette. Qual è l’episodio più strano che ricorda e che in qualche modo può essere ricondotto a questi fenomeni?
“Una delle cose che ci colpì molto fu il comportamento di un esperto inglese da noi contattato per una consulenza. Dopo che recuperammo la prima delle due scatole nere dell’aereo, quella che registra tutti gli eventi sonori all’interno della cabina di pilotaggio, ci trovammo di fronte a delle registrazioni incomplete e disturbate. Nell’ultima parte dei nastri, pochi istanti prima del black-out che seguì all’impatto, erano stati incisi dei rumori, estranei alla cabina, che non riuscivamo a decifrare. Interpellammo allora un tecnico inglese esperto in questo genere di analisi, al quale spedimmo una copia delle registrazioni. Quando andammo a trovarlo in Inghilterra per concordare il lavoro, lui, che già aveva dato un occhiata al materiale, si dimostrò molto disponibile a collaborare e ci fornì anche un preventivo per la sua consulenza. Ottenuta la necessaria autorizzazione del giudice, ricontattammo l’esperto inglese che, inspiegabilmente, ci disse di non essere più disponibile per quel lavoro. Aveva detto di no a una ventina di milioni per pochi giorni di lavoro. L’idea che ci facemmo fu quella che qualcuno lo aveva avvicinato dicendogli di lasciar perdere. Anche in altre occasioni ci furono dette cose che, in seguito, vennero rettificate o smentite. In particolare, in certe indagini svolte in ambienti inglesi i colloqui successivi ad alcuni studi sembravano essere favorevoli alla tesi del missile esterno. Poi, quando ci venivano inviati i rapporti scritti, le versioni erano inspiegabilmente cambiate. Ciò che a voce era certo, sulla carta diventava dubitativo o addirittura negava quanto sostenuto in precedenza. Che ci fosse dietro qualcuno che si prodigasse per cercare di indirizzare il risultato delle indagini in un senso anziché in un altro era abbastanza evidente”.
Anche dei suoi colleghi, il coordinatore del gruppo Blasi e l’esperto in esplosivi della Selenia, Cerra, cambiarono improvvisamente idea sulla causa del disastro. Anche questa fu opera di una regia occulta? Aveste la sensazione che questi due colleghi fossero stati minacciati?
“Mah! Non lo so. Non ce lo siamo mai spiegati. Fu una vera sorpresa. Quando ci dissero di non credere più all’ipotesi del missile e di essere favorevoli alla tesi della bomba interna ci meravigliammo molto. Anche perché, fino ad allora, eravamo soliti consultarci prima di qualsiasi decisione. In quel caso, la loro conclusione arrivò come un fulmine a ciel sereno. Chiedemmo un chiarimento, ma non ci fu dato. Non so perché cambiarono idea. Una cosa so di certo. Io e gli altri della commissione che continuammo a sostenere la tesi del missile fummo denunciati per calunnia dal consulente legale dei militari, l’avvocato Carlo Taormina. Ricordo che proprio in quel periodo ci fu un altro episodio strano collegato ai tracciati radar di Fiumicino. I tecnici della Selenia, la compagnia che aveva prodotto e montato i radar di Fiumicino, ci comunicarono che i tracciati radar in nostre mani, che documentavano la presenza di un caccia che incrociava la rotta del Dc-9, non erano più attendibili perché, ci dissero, avevano scoperto degli errori di taratura nel radar che risalivano al tempo delle installazioni. Chiedemmo un’ulteriore verifica. Fatto sta che la Selenia, senza dire niente a nessuno, andò a riparare l’anomalia, o almeno è quanto ci fu detto. Questo accadeva, se non erro, nel 1990. Dieci anni dopo Ustica. Ci sembrò strano che per dieci lunghi anni nessuno si fosse mai accorto dell’errore. Incredibile, vero?”
Vi sentivate osservati in quegli anni?
“Non immediatamente. Cominciammo a sentirci controllati appena iniziò la fase di recupero del relitto, nel giugno dell’87. In quel periodo cominciarono a contattarci strani individui che si spacciavano per giornalisti. Sapevano già quello che doveva accadere. Uno in particolare ci seguiva ovunque. Acquisiva notizie che poi non vedevamo riportate su alcun giornale. Era chiaramente uno dei servizi segreti. In particolare, ci veniva continuamente chiesto se avessimo trovato o meno dei relitti diversi da quelli del Dc-9.”
E ne trovaste?
“Si, ne trovammo. Tra i reperti recuperati all’epoca dell’incidente trovammo dei pezzi che non appartenevano al Dc-9 precipitato. Tra questi, pezzi di schegge metalliche che si erano andati a conficcare nella gomma piuma dei sedili dell’aereo.”
Quali sono stati gli errori più grossi nelle indagini su Ustica?
“Il ritardo con cui è stato fatto recuperare il relitto e il non aver eseguito l’esame autoptico sui corpi ritrovati.”
Secondo lei per quale motivo non vennero subito ripescati i resti del Dc-9?
“Il costo delle operazioni era considerato troppo alto. Sia Bucarelli, sia noi periti, cercammo l’appoggio politico e finanziario del governo per procedere con il recupero. Ci offrimmo persino di fare un preventivo per dimostrare che non era un’operazione impossibile.”
Alla fine fu scelta una società francese di recuperi sottomarini, l’Ifremer. Una ditta, però, che venne in seguito accusata di essere vicina ai servizi segreti d’Oltralpe…
“Non credo che fosse vicina ai servizi francesi. So di certo che era l’unica in possesso dell’attrezzatura adatta a scandagliare il fondo a quella profondità e a recuperare i resti del Dc-9.”
Da alcune riprese effettuate sul fondale accanto al relitto dell’aereo erano ben visibili delle tracce del passaggio di qualche macchinario, come se qualcuno avesse scandagliato quel tratto del Tirreno prima della società francese…
“Non credo che qualcuno sia andato lì prima di noi. Quelle strisce sul fondo sono state lasciate dalle telecamere della stessa società francese. Null’altro.”
Avete raccontato tutto ai giudici?
“Solo quello che si poteva raccontare. Le impressioni non si possono scrivere nei rapporti e il nostro compito era solo scoprire perché cadde quell’aereo.
Sono passati venti anni dal disastro. Non ci sono ancora colpevoli. Gli unici risultati delle indagini sono, per ora, dieci rinvii a giudizio.”
Secondo lei, come andrà a finire?
“Purtroppo la mia esperienza in fatto di disastri aerei mi porta a dire che in Italia, ad oggi, non è stato mai condannato ancora nessuno per acclamate responsabilità dirette.”
(Nazareno Dinoi per il settimanale nazionale “Avvenimenti”, settembre 2000)
Per scriverci e segnalarci un evento contattaci!