Un Polo museale in un territorio complesso e articolato, come sono quelli italiani e soprattutto in un territorio della Magna – Grecia – Mediterraneo – Regno di Napoli, deve adottare la strategia dell’attrazione. Si tratta di un concetto estetico, ma anche metafisico. Di un concetto che porta ad uno sviluppo delle politiche culturali all’interno di un processo che ha come riferimento e obiettivo l’attenzione economica e la scelta di una visione politico – culturale che sia determinante sul piano formativo, pedagogico, scientifico.
Una metodologia che andrebbe applicata, comunque, su tutto il comparto dei beni culturali e delle attività culturali che abbiamo come punto di partenza l’istituzione: sia essa nazionale sia essa regionale o comunale. Il Polo museale deve essere proponente e garante dei processi culturali comparati.
Questo non significa che debba soltanto occuparsi della propria specificità o delle proprie originarie competenze. Oltre a questo aspetto ormai bisogna parlare di una attività promozione dei beni culturali tout court. Soltanto attraverso una griglia in cui il patrimonio culturale venga considerato come modello monolitico, pur nelle sue chiare definizioni, è possibile non disperdere le azioni e le risorse che un territorio manifesta e si porta dentro in modo latente.
Risorse e vocazioni restano, comunque, i due capisaldi di una realtà storica radicata all’interno della geografia nella quale un Museo si trova ad operare. I due percorsi, sui quali spesso mi sono soffermato da decenni, interessano la sfera del pensiero pedagogico e le linee di sviluppo sottolineate in una temperie di superamento di pensiero leggero.
Un Polo museale, infatti, rientra in quel contesto di culture classiche che vanno riproposte. La tradizione si recupera non soltanto con il linguaggio o i linguaggi, la memoria e il tempo proustiano, il materiale e i reperti. Si recupera con una filosofia, appunto, dell’attrazione nei confronti di una storia che possa rappresentare una serena e profonda interpretazione delle civiltà.
Da questo punto di vista le altre due strade sono quella scientifica, di cui un Museo ha bisogno sempre, e quella didattica che osserva nella attrazione un preciso ruolo di contatto con la scuola, con il mondo dell’associazionismo, con il passaggio generazionale all’interno del territorio stesso. Qui subentrano i linguaggi dei beni culturali ben difesi dalla tradizione, ma ben introdotti in una visione del moderno diffuso nel contemporaneo.
La Riforma Franceschini è una buona chiave di lettura per “sdoganare” i beni culturali dalla sola norma della tutela. La valorizzazione è un principio portante perché deve necessariamente servirsi delle conoscenze. Quindi, la staticità di un Museo non ha più senso proprio nel modello filosofico del bene culturale e della cultura come veicolo di identità ed eredità diversificate. Ed è bene che questa apertura venga ben recepita dalle istituzioni territoriali, dalle culture sul territorio e dai modelli innovativi che non disperdono i valori della tradizione, ma che sappiano guardare oltre.
Un territorio oggi considerato non più, o non è solo, un luogo leopardiano diventa una ontologia della geopolitica delle culture qui e oltre. La geopolitica delle culture consiste nel bisogno di una progettualità della strategia dell’attrazione, ma anche dell’attenzione.
Pierfranco Bruni
(Dirigente sindacale)