La testimonianza spirituale nella voce di Simone Weil è un attraversamento antropologico delle metafisiche che superano l’ovvio. Non esiste la materialità e non esistono le cose. L’esperienza spirituale è un cammino di attraversamento. Il modello è sciamanico. I simboli contano più delle cose. Qui l’antropologia delle cose diventa la metafisica di una antropologia dell’anima. Pensiero è un passaggio tra l’anima e la mente. Penetra il tempo. Il tempo metafora delle vite e delle memorie nelle quali le vite stesse continuano a vivere. I radicamenti sono anche nel vissuto delle nostalgie. Noi siamo nostalgia. Maria Zambrano e Simone Weil. Cristina Campo e Antonia Pozzi.
Al femminile il tragico è sentiero di ricerca e di viaggio sino a toccare Francisca de La Valle. Blanchot cerca nel tempo lo spazio. Lo spazio è antropologia dell’immateriale.
Nel cerchio di questo viaggiare la nostalgia è empatia. La nostalgia anche come “memoria vissuta”. “Frammenti di un discorso sulla nostalgia” di Eugenio Borgna. Si legge: “In una esperienza emozionale, come quella della nostalgia, il passato (la dimensione del passato) dilaga e sommerge il presente (la dimensione del presente) mentre il futuro (la dimensione del futuro) retrocede: fibrilla e poi si sfalda, si incrina e poi si spezza quando la nostalgia abbia a trasformarsi da semplice stato d’animo in forma clinica: in depressione”.
La dimensione del futuro è una archeologia dei saperi scavati nell’anima. La dimensione dei saperi è una archeologia antropologica. L’anima e il silenzio sono tasselli del mosaico dell’esistere e del non essere per rappresentarsi nella presenza come volto della conoscenza. La conoscenza guida l’amore. L’amore è sempre (ha) misericordia. “Quando manchiamo di misericordia separiamo violentemente la creatura dal suo Creatore” (Simone Weil). Su Simone Weil Eugenio Borgna dedica un suo camminamento: “L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil” (Feltrinelli, 2016).
Qual è questa indicibile tenerezza? La via verso la Fede. Accanto alla Weil si leggono altri viaggi. Le disperanti parole del dubbio diventano il pensiero pensato di Pascal, la metafisica dello specchio che trovo costantemente nella mia Zambrano, i suicidi da Pavese alla Pozzi.
Proprio sulla Pozzi sottolinea Eugenio Borgna: “La storia della vita e della morte di Antonia Pozzi è stata segnata da questa precoce aspirazione alla morte e da questa acutissima percezione del trascorrere (del fuggire) del tempo come epifania della inconsistenza e della friabilità della vita. (…)
La malinconia… non può non essere considerata come la matrice possibile della morte volontaria di Antonia Pozzi: essa scorre come un filo rosso lungo le sue poesie: dalle prime, così immerse in una dolorosa e disfatta climax adolescenziale, alle ultime; e alla malinconia non può non essere legata la loro indicibile fascinazione” (“L’attesa e la speranza”, Feltrinelli 2005).
Si vive sempre di attesa e di speranza. Perché sia nell’attesa che nella speranza si vive l’immensità dell’amore: “Amare puramente significa amare nell’altro la sua fame. Ma noi amiamo gli altri come nutrimento”. L’amore è nutrimento. Dentro queste dimensioni del pensare convivono gli esercizi di una spiritualità profondamente radicante e radicata nelle visioni divine. Il senso del divino incontra il tragico con Simone Weil. Ma incontra soprattutto il contemplante.
Soltanto la spiritualità ci permette di entrare nella parola contemplante e nella misericordia del mistero. Ma soltanto il dolore ci permette di conoscere e ci cambia. Ma nel dolore bisogna essere fedeli. Solo in questa fedeltà si resta con se stessi: “La fedeltà è il segno del soprannaturale, perché il soprannaturale è eterno” (Simone Weil). Bisogna credere nel destino?
Si crede al miracolo. Perché è il miracolo che si lega alla fede. Dunque un viaggiare in una estetica della spiritualità e del sacro che propone una lettura di senso alla vita e al tempo.
Vita e tempo sono “soggetti” spirituali e proprio in tale orizzonte le nostre vite si incontrano oltre il concetto stesso di destino. Credo che la riflessione porta alla meditazione- Questa ci permette di osservare: “Ci sono individui che cercano di elevare la loro anima come un uomo che salti continuamente a piedi uniti, nella speranza che a forza di saltare sempre più in alto, un giorno, invece di ricadere, riuscirà a salire fino in cielo. Ma mentre è tutto preso da questi tentativi egli non può guardare il cielo. Noi non possiamo fare nemmeno un passo verso il cielo:la direzione verticale ci è preclusa. Ma se guardiamo a lungo il cielo, Dio discende e ci rapisce” (Simone Weil).
Essere rapiti da Dio è toccare l’armonia che inquieta il cuore e riposa nell’anima. Una vera antropologia delle essenze. O meglio dell’essere. Con l’anima l’antropologia deve poter fare i conti sia grazie alla psicologia che alla filosofia. Ecco Simon Weil.
Pierfranco Bruni