Don Mariano Arena al capitano dei Carabinieri Bellodi dirà: “Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…”. SiaMo al Leonardo Sciascia de “Il giorno della civetta”.
Un romanzo senza il quale la tramatura letteraria – storia – politica non ci sarebbe stata. Leonardo Sciascia è l’àncora di una letteratura che giunge sino al personaggio del commissario Montalbano, ma con altre strutture, altro linguaggio, altra forza narrante. La cultura italiana si era dimenticata di Sciascia. Già! Nonostante il trentennale della morte. Questa è la famosa frase di Don Mariano, grazie alla quale si è strutturata una tipologia di linguaggio letterario le cui radici sono scavate nella sicilianità. Gli esami di maturità 2019 rispolverano i testi di Sciascia nonostante resti in piedi ancora l’interrogativo del grande “Affaire Moro”. Una pietra miliare, Sciascia che vive “a futura memoria”.
Che dire di Ungaretti? Il Mediterraneo Ungaretti che la sinistra volle cacciare dalle Università di Roma dopo la caduta del Fascismo e al quale non si volle assegnare il Premio Nobel? Non dimenticare che era apprezzato da Papini, Soffici, Prezzolini e Benito Mussolini, al quale Ungaretti chiede espressamente la prefazione per il suo “Porto sepolto” del 1923 definendolo “Uomo del Rinascimento”. Sciascia e il suo illuminismo profetico liberale. Ungaretti e il suo tradizionalismo novecentesco.
Mi pongo un interrogativo. Mi arrovella. Una contro cultura? Una contro Storia? Le premesse ci sono. Esami di maturità 2019. Prima prova. Una ottima scelta, finalmente, dopo anni di discussioni e cifre polemiche, per le tracce, l’argomentare e gli autori sui quali si deve riflettere. Una scuola che cambia? Cambia la cultura, direi, e la scuola non può fare a meno di adeguarsi, in modo costruttivo, alle verità storiche finora taciute. Siamo, con questa proposta di riflessioni, ad un superamento della dominazione ideologica gramsciana anche nella individuazione delle tracce per gli esami di maturità. Bisognerebbe leggerle con attenzione le proposte.
A cominciare da Ungaretti. Si fa una scelta precisa, positiva a mio avviso, individuando nella problematica del “porto sepolto” il riferimento centrale della sua poetica. Quel “porto sepolto” che ha visto nella seconda edizione del 1923 la prefazione di Benito Mussolini. Una silloge che occuperà lo scenario ungarettiano anche dopo gli anni Quaranta.
Mi sembra eccezionale la poesia scelta. La metafora del “risveglio” è fondamentale. Le nuove generazioni devono cominciare ad utilizzare non solo l’interpretazione come pensiero forte ma anche la metafora che si “maschera” dietro un titolo. Quell’Ungaretti che scrisse a Mussolini tali parole: ”Meriterei di essere da un pubblico piu’ vasto conosciuto ed amato. Finora non conosco bene che la fame. L’Italia nuova deve sapere dare di piu’ al valore. Vuole Vostra Eccellenza che la rinnovata italianita’ sta consacrando, innalzare anche la mia fede? Riccorro a V. E. come a un signore della Rinascenza. Quando l’Italia e’ stata grandissima nel mondo, i potenti non sdegnarono di coronarla di bellezza (ch’e’ la sola cosa non peritura)”. La missiva è datata 5 novembre del 1922.
Proprio qualche giorno fa avevo percorso l’Ungaretti che va dal porto alla terra promessa in occasione dei cinquant’anni dalla morte che cadranno il prossimo anno.
Il vocabolario del pensiero forte ha un senso rispetto agli anni precedenti. Si pensi alla citazione di Gino Bartali. Finalmente non più Primo Levi. Bartali che ha una formazione cristiana affronta la questione degli ebrei con una forza non più pietistica, ma coraggiosa usando uno strumento importante come lo sport, ovvero il ciclismo sottolineandolo come identità nazionale. Quel Gino Bartali che dirà: “Il bene si fa ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”. Oppure il vero cristiano che sottolinea: “Alla Madonna ho promesso che avrei fatto le cose per bene, perché tutto quello che faccio, lo faccio a nome suo. E così lei è stata attenta a non farmi sbagliare”.
Così anche la Introduzione di Corrado Stajano che problematicizza il Novecento dal testo “La cultura italiana del Novecento”, a cura di, 3 voll., Roma-Bari, Laterza, 1996. Ma Stajano, documentarista che ha dedicato documentari alla Resistenza e alla Repubblica di Salò, è anche il famoso autore di “Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta”, Torino, Einaudi, 1979. uno dei ultimi testi risale al 2017 dal titolo: “Eredità”, edito da Il Saggiatore. I suoi scritti mi hanno spesso fatto compagnia. Al di là delle “etichette” uno scrittore e un pensatore del confronto. Ho riletto più volte il suo “Africo”, regalatomi da mio padre. Qui ho ritrovato il mio Pavese: “Gli africoti odiano il mare. Un mare quasi sull’uscio di casa, blu carico, con bordi celeste madonna e striature vinose. I villini dei capomastri non sono riusciti ad alterare la natura selvatica della costa e lunghe spiagge sono rimaste immacolate. Tra gli abitanti di Africo Nuovo nessuno possiede una barca e non esiste un marinaio o un pescatore. Andare sulla scogliera verso Brancaleone e guardar giù i sassi bianchissimi che si intravedono sul fondo esaurisce ogni rapporto col mare. Un odio di immigrati costretti in un elemento estraneo. Anche Cesare Pavese, confinato politico nel 1935, proprio a Brancaleone, 11 chilometri da Africo, odiava il mare, ma aveva, se non altro, il conforto dell’ironia del letterato e la certezza che il suo soggiorno era obbligato ma breve: ‘La spiaggia è sul mar Jonio che somiglia a tutti gli altri e vale quasi il Po’”.
Di politica e di mafia è improntato il nodo di una meditazione che porta inevitabilmente a Leonardo Sciascia, attraverso il ricordo del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
È Leonardo Sciascia il chiavistello importante con il suo libro “Il giorno della civetta” che venne pubblicato nel 1961. Un vero scrittore, antesignano di una giallistica leggera che arriva sino ad Andrea Camilleri con l’invenzione di un Montalbano in cui fa gioco l’ironia e un dialetto molto discutibile. In Sciascia, soprattutto con il comandate dei Carabinieri Bellodi, si crea il vero personaggio che entra nella cronaca ma diventa, soprattutto in letteratura, un personaggio nel destino di un intreccio tra sicilianità, politica e mafia. Ha avuto un grande regista, Damiano Damiani che ha tratto uno splendido film, addirittura in un’epoca fatale, nel 1968. E’ lo Sciascia che si permette di scrivere nel romanzo citato: ““Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna”. Oppure quello che pone, nel libro una tale riflessione: “Il popolo, la democrazia …sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità.”
Cercate di dire le verità quando raccontate e non la verità che voi pensate che sia verità, sembra cogliere da queste tracce, tra la provocazione e la meditazione. Ungaretti e Sciascia raccontano la contro storia e la contro letteratura. Mi pare così ovvio. Entrambi sono una identità di culture diverse e di formazioni diverse. Ma fanno riflettere su un pensiero forte che tuttora manca nella cultura (anche scolastica) di questi anni. Un porto sepolto come modello della poetica del Novecento. La metafora della civetta, nel segno profetico, come esempio di una letteratura alta. L’italianità al centro della cultura nazionale. Una contro cultura alla prima prova degli esami di maturità? Non so! Forse una nuova cultura che si apre al confronto in un secolo che ha bisogno di una dia lettura vera oltre gli ostracismo di questi decenni.